Parmigiana, anzi, fidentina, classe 1985. Sara Loreni è una cantautrice eclettica e originale, con una folta chioma riccia, le idee chiare e il coraggio di essere sé stessa fino in fondo.
Vincitrice del premio speciale della critica nel concorso “La Musica Libera. Libera la Musica” organizzato da Regione Emilia Romagna e MEI (Meeting Etichette Indipendenti) nel 2008, del primo premio assoluto nell’edizione 2010 dello stesso concorso e, sempre nel 2010, del prestigioso Premio Ciampi. Nel 2015, dopo aver partecipato ai Bootcamp di X Factor e essersi conquistata l’accesso agli Home Visit, ha deciso di rifiutare ed è uscita dallo show, scatenando grandi polemiche sui media e sul web.
Sempre nel 2015 è uscito il suo primo album, “Mentha”, dieci tracce fresche e raffinate, sotto la produzione artistica di Martino Cuman dei Non voglio che Clara: un prodotto tutt’altro che commerciale grazie al quale Sara ha messo a tacere le polemiche e ha rivelato al pubblico la vera se stessa.
Abbiamo fatto una lunga e piacevole chiacchierata telefonica con lei qualche giorno fa e ci ha colpito quanto sia vera, spontanea e onesta come persona e come musicista.
Quando nasce la tua passione per la musica e in particolare per il canto?
Già da piccolina avevo una grande passione per la musica e, a dire il vero, anche una certa predisposizione; il maestro a scuola se n’era accorto e aveva invitato i miei genitori a farmi seguire un percorso che si era tradotto nel fare parte del coro del duomo di Fidenza. Ma la cosa non mi esaltava ed è durata poco.
Crescendo ho iniziato a fare equitazione a livello agonistico e mi sono dedicata per molti anni prevalentemente a quello, tutto il resto, musica inclusa, era passato in secondo piano tra allenamenti e gare.
Poi un giorno, mentre ero in Belgio in una scuderia dove ero andata ad allenarmi per due mesi, ho avuto una sorta di illuminazione e ho finalmente capito che quello che volevo fare era dedicarmi alla musica. Così sono tornata a casa e ho iniziato a studiare sia canto che chitarra, ho creato la mia prima band e da lì non ho più smesso.
Poi hai avuto anche una formazione jazz…
Quando ho iniziato a studiare canto ho avuto varie insegnanti, alcune delle quali erano cantanti jazz come Diana Torto e Renata Tosi. In quegli anni frequentavo anche il conservatorio, ma solo come uditrice perché nel frattempo ero iscritta all’università.
Sicuramente sono anni che hanno influenzato il mio approccio alla musica e al canto. Una delle branche di studio del canto jazz è lo scat che consiste nell’usare la voce come uno strumento musicale, ed è un po’ quello che a volte mi capita di fare con la mia, anche se nel mio caso la parte di improvvisazione è sicuramente affrontata in maniera diversa e meno centrale rispetto a quello che si è soliti fare nel canto jazz.
Voce jazz, suoni la chitarra ma poi ti sei orientata verso la loop station…
Ho cominciato con la chitarra classica e per diversi anni ho suonato solo quella. Poi, per un incidente alla mano, ho dovuto metterla da parte… anche se ultimamente è tornata in auge, questa volta però nella versione elettrica.
La passione per la loop station è nata quasi per gioco, invece. Dovete sapere che quando ho iniziato a cantare in maniera un po’ più strutturata, più o meno intorno ai 20 anni, ero entrata a far parte del progetto Battello Ebbro di Paolo D’Errico (l’ex bassista dei Ridillo, che ha collaborato, tra gli altri, anche con Gianni Morandi). Era una formazione di 7 persone, con fiati, pianoforte e basso, impegnativa ma che è stata capace di regalarmi grandi soddisfazioni.
Qualche anno dopo, quando ho iniziato a scrivere canzoni destinate ad un’interpretazione da solista, la semplice combinazione di chitarra e voce non mi davano la stessa sensazione di pienezza di una band, soprattutto di una band di quelle dimensioni. Così ho comprato una loop station e ho iniziato a giocarci un pochino, per ricreare la moltitudine di voci alla quale mi ero abituata.
Ecco, tu scrivi testi e musiche di tutte le tue canzoni, sei una vera propria cantautrice. E proprio su un cantautore, Paolo Conte, hai scritto la tua tesi di laurea in letteratura italiana. Cosa ti ha affascinato maggiormente di questo grande artista e in che modo pensi possa aver influenzato il tuo lavoro, se l’ha fatto?
Inizialmente mi ha influenzato molto, direi pure troppo: c’è quel momento in cui ti innamori di qualcuno e in qualche modo il suo modo di vedere le cose si impadronisce letteralmente di te. E non posso certo negare che Conte, insieme a Battiato, sia il mio punto di riferimento. Mi piace perché sento che il suo approccio alla musica è in un certo senso simile al mio, lui scrive prima la musica, poi il testo e anche io faccio così. Nelle sue canzoni si percepisce chiaramente che è la melodia a giocare un ruolo da protagonista e ad avere la meglio sul testo, che è connotato per questo in maniera fortemente musicale. Un modo di operare del tutto diverso da quello di altri autori, ad esempio un Francesco Guccini, nella cui opera è invece il testo a giocare un ruolo centrale. Di Paolo Conte mi piace la maniera enigmatica di scrivere che caratterizza alcune fasi della sua opera, ho trovato interessante che abbia scritto testi davvero molto astratti, che in qualche modo riproponevano la logica astratta che secondo me è alla base della musica. Una canzone su tutte per fare un esempio è Max. E poi mi ha sempre affascinato molto questo immaginario della Parigi anni ‘20 o del jazz a Harlem che è spesso presente nell’opera di Paolo Conte, trovo sia un intellettuale molto fine.
Come nasce una canzone? Che componente autobiografica c’è nei testi che scrivi che sono spesso visionari e popolati di personaggi curiosi?
Come ti dicevo solitamente inizio a comporre partendo dalla musica; poi cerco tra le varie cose che ho scritto e provo a vedere se c’è un testo che possa andare bene, in quel caso lo ripenso e riadatto per la melodia in questione.
Nello scrivere i testi la maggior parte delle volte parto da qualcosa che è accaduto realmente ma poi ci ricamo sopra molto, sia per necessità narrative ma anche perché a volte ti viene da dire “Qui ci starebbe proprio bene se succedesse questo…” e così la realtà prende una strada inaspettata. Scrivo in una continua alternanza tra realtà e immaginazione, facendo avanti e indietro tra questi due poli e spesso mi piace usare il paradosso e l’ironia, come ad esempio ho fatto in “Dovresti alzare il volume”.
Nel 2010 il Premio Ciampi, un riconoscimento prestigioso e di nicchia per, cito dal sito dell’associazione, “le nuove generazioni di musicisti che stentano a porsi all’attenzione di pubblico e critica, rigettati da un mondo che si muove in base a regole commerciali che finiscono con il mortificare ogni forma di creatività.” Cosa ha significato per te questo premio e ha cambiato qualcosa nel tuo modo di fare musica?
Mi ha reso felicissima, avevo 25 anni e mi ha indirizzato nel percorrere la strada della musica con ancora più convinzione, ma se una volta questi premi potevano cambiare le tue prospettive oggi purtroppo non è più così. Si tratta di riconoscimenti prestigiosi che ti danno maggiore autorevolezza e serietà nei confronti del mondo della critica, questo è innegabile. Ma se una volta c’era un pubblico che seguiva davvero queste manifestazioni alternative a Sanremo, che cercava nella canzone d’autore qualcosa in cui riconoscersi, un pubblico compatto e caratterizzato da una coesione di idee culturali e politiche, oggi questa realtà è un po’ venuta meno.
Poi nel 2015 X Factor. Come hai preso la decisione di partecipare ai provini e cosa ti aspettavi di trovare? Cos’hai trovato invece in realtà e perché hai abbandonato la trasmissione?
La verità è che non avevo aspettative… e secondo me questa è stata la cosa che mi ha salvato! Tutto è nato da una proposta ricevuta da un talent scout; inizialmente pensavo di rifiutare perché temevo che la tv non facesse per me… io sono la persona meno televisiva del mondo, sono anni che non ho la tv in casa! Poi però, complice anche un’amica, mi sono convinta di provare, anche perché sono fermamente convinta che non ci siano esperienze positive o negative in senso assoluto, tutto dipende dal modo in cui tu le vivi.
Sono andata a X Factor con l’idea di continuare a fare quello che facevo da altre parti, suonare la mia musica, la clausola era nel momento in cui non mi fossi sentita a mio agio me sarei andata via.
Avrei però desiderato riuscire a portare in trasmissione un mio brano, visto che ad alcuni concorrenti era stato permesso. Invece mi hanno chiesto di fare una cover e devo dire che già questa imposizione mi aveva stizzita, perchè a me ha sempre affascinato la parte autoriale, quella di scrittura dei testi e delle musiche: invece lì è tutto incentrato sulle capacità di interpretazione e sulla performance. Insomma, è uno show televisivo. Quello che mi ha reso ulteriormente insofferente è che le dinamiche televisive comportano tempi di attesa lunghissimi, a volte ho dovuto aspettare anche 14 ore prima di esibirmi, una vera e propria prova di forza e di resistenza.
Si è parlato talmente tanto del tuo rifiuto che nessuno più ha parlato della tua musica, non trovi? Adesso come va, come sta andando la promozione di Mentha? Hai un altro progetto/album nel cassetto?
Sicuramente l’uscita di un album a ridosso del mio abbandono di X Factor qualche effetto l’ha avuto, anche perché Mentha non è un disco così main stream e facile da ascoltare, quindi chiaramente il pubblico di X Factor non si aspettava una cosa del genere. Ma sono molto soddisfatta di come è andata la promozione in questi quasi due anni. Continuiamo a girare per suonare live, l’ultimo concerto proprio qualche giorno fa al TedEx di Reggio Emilia. Quest’inverno poi abbiamo lavorato a molti pezzi e non escludo che a breve possa essere pronto un altro album. Poi c’è nel cassetto un progetto di collaborazione con Cristina Donà… ma di questo non posso ancora dirti nulla, a breve, molto a breve, saprete qualcosa!
… e noi di Music Storm non vediamo l’ora di sapere di più!