Come da un sogno nasce un grande festival

Intervista a Giovanni Sparano, direttore artistico di Barezzi Festival

Ci sono grandi sogni. E quelli li abbiamo un po’ tutti. Poi ci sono grandi sognatori. E ogni tanto fa bene incontrarne qualcuno per prendere ispirazione. Ecco, noi ne abbiamo incontrato uno e siamo rimasti contagiati dalla potenza e dalla genuinità della sua passione: Giovanni Sparano, 38 anni, ebolitano ma trapiantato a Parma, un vulcano di energia, positività e idee.

In città conosciuto nella duplice veste di oste di un piccolo bar elegante in una zona residenziale alle porte del centro (il Caffè dei Marchesi) e di ideatore, nonché direttore artistico, di quello che oggi è uno dei festival musicali più originali, raffinati e variegati in Italia, il Barezzi Festival.

Come dicevamo, una grande passione per la musica, ma anche un gusto impeccabile, la voglia di scovare sempre nuovi talenti e soprattutto il coraggio di credere nei propri sogni e di fare tutto il possibile per realizzarli. Bussando a tutte le porte, mettendosi in gioco in prima persona, osando percorrere strade mai battute da altri, senza porre un freno al proprio progetto ma, al contrario, alimentandolo continuamente anno dopo anno.

Raccontaci un po’ di te. Cresciuto a Eboli, poi a Parma per studiare Giurisprudenza: questa passione per la musica come la collochiamo? Suonavi? Qualcuno nella tua famiglia suonava?

Io sono il quarto di cinque figli. A casa si ascoltava molta musica e soprattutto si cantava. Ho ricevuto una certa eredità musicale sia da parte di madre che da parte di nonna. La nonna, con la quale avevo un rapporto quasi carnale (non a caso mia figlia si chiama Clelia come lei), era più proiettata sulla musica classica. Del resto, si sa, le nostre nonne, anche quando avevano solo la quinta elementare, conoscevano a memoria tutte le opere classiche perché ai tempi non c’era la televisione e passavano il loro tempo libero così. Mi ha insegnato tutti i canti di guerra, i canti popolari, la Tosca, la Norma, la Traviata. Tutti questi suoni sono rimasti nel mio immaginario, venendo a galla molti anni più tardi.
Mia mamma, invece, ascoltava prevalentemente musica anni ’60, quindi Mina, Luigi Tenco, Iva Zanicchi, Adriano Celentano.
E poi c’era la musica dei miei fratelli, Pino Daniele, Vasco Rossi, Eros Ramazzotti (ma quello degli anni ’80), i Duran Duran, Prince, i Dire Straits, Boy George.
Io sono stato un buon uditore ma ho sempre avuto, credo, un’innata predisposizione per la musica.I primi tre fratelli andavano tutti a lezione di piano, ma controvoglia. Quando tornavano a casa io ascoltavo quello che facevano e lo riproducevo a orecchio. Poi a sei anni fui invece io a chiedere a mia mamma di farmi andare a lezione ma l’insegnante mi fece iniziare dal solfeggio: immagina un po’, a malapena sapevo leggere e lui mi faceva fare ore ed ore di solfeggio. Risultato: dopo 15 giorni andai a giocare a calcio. Per fortuna che oggi i metodi di insegnamento sono cambiati!
Detto questo la mia adolescenza a Eboli è stata piuttosto “piatta”, non c’erano le strutture per grandi iniziative culturali, in quegli anni aveva chiuso perfino l’ultimo cinema. La mia cultura musicale era prevalentemente televisiva, ho ascoltato tantissimi programmi come DeeJay Television, al pari di qualunque giovane della mia età.
Però a Eboli, nonostante i suoi 40.000 abitanti, c’erano svariati gruppetti che si collocavano nella scena indie e c’era anche un festival di nicchia che si chiamava Feedback dal quale erano passati i vari Silvestri, Gazzè eccetera prima di diventare famosi (per i grandi eventi, invece, si andava a Cava dei Tirreni).
L’avvenimento che ha fatto da detonatore per tutte queste esperienze musicali immagazzinate in gioventù è stato il fatto di ritrovarmi quasi per caso a fare la comparsa al Teatro Regio. Studiavo a Parma ed ero sempre alla ricerca di un modo per guadagnare due lire: un giorno mi incuriosii nel vedere una fila di persone in via Carducci e, seguendola, scoprii che stavano facendo le audizioni per diventare comparse al Regio e che si guadagnava abbastanza bene. Detto, fatto! Fu letteralmente amore, prima per l’acustica dei teatri e poi per il melodramma in sé. Da lì per tre anni ascoltai solo opera, quasi un’overdose. Alla fine facevo la comparsa non più per i soldi ma solo per ascoltare la musica. Partecipai a più di 30 opere tra cui anche l’Aida di Zeffirelli.
Con l’orecchio sempre vicino all’orchestra sono uscite allo scoperto tutte le cose che avevo immagazzinato da ragazzino.

Come nasce quindi il Barezzi?

Questa passione per il melodramma mi ha portato ad interessarmi, oltre che alla musica di Verdi, anche alla sua storia. Una storia incredibile. Così ho iniziato a domandarmi come mai si parlasse tanto di Verdi ma mai di Antonio Barezzi, il suo mentore (ndr Antonio Barezzi, suocero di Giuseppe Verdi, ebbe un ruolo fondamentale nella sua carriera sostenendolo economicamente agli esordi).
Alloa io avevo già il mio bar, il Caffè dei Marchesi, e lì decisi di iniziare a organizzare una piccola rassegna intitolata proprio a Barezzi.
Era il 2006, all’epoca non c’era Facebook e ci facevamo promozione attraverso un MySpace. L’idea principale era quella di invitare all’interno del nostro locale gruppi che portassero brani originali e, tra le altre cose, fossero disposti a reinterpretare anche un brano classico, pur se non necessariamente verdiano. Creammo un bando di concorso, per un anno facemmo audizioni selezionando i gruppi tra gli oltre 50 demo ricevuti. Avevamo una giuria con personaggi di spicco come Bernardo Lanzetti, Alessandro Nidi e molti altri.
Ma il mio obiettivo finale era quello di andare a Busseto.
Un pomeriggio andammo con mia moglie e un amico alla Salsamenteria di Busseto e ne uscimmo mezzi ubriachi. Avevamo con noi i volantini del concorso e per gioco li posizionammo ai piedi del portone di ingresso di casa Barezzi. Dopo un mese fummo contattati dall’Associazione Amici di Verdi che ci invitò a Busseto per un appuntamento col Dott. Napolitano, l’allora presidente. Il nostro obiettivo era fare sì che la finale del concorso avesse una sede importante come la piazza di Busseto e lo centrammo in pieno grazie anche alla disponibilità dell’allora sindaco Laurini.
Vinsero quell’edizione i Django Fingers e ricordo che investii 1000 euro di tasca mia per il primo premio perché, allora come adesso, credevo tantissimo nel progetto.
Quella sera mi venne l’idea del festival, vedendo quella piazza meravigliosa e il teatro pensai che era una location eccezionale per questo tipo di evento.
Tornato a casa, decisi di scrivere nientepopodimeno che a Franco Battiato. La scelta di Battiato venne quasi automatica pensando a artisti trasversali che si sono sempre confrontati con la musica colta. Una mail lunghissima alla quale Battiato rispose nel giro di pochi giorni invitando me e Laura, mia moglie, a casa sua a Milo in Sicilia.
Così, partimmo e andammo a trovarlo. Trovammo una persona molto british ma nel contempo affabile in una casa bellissima, anche se semplice, sulle pendici dell’Etna. Lui si mostrò subito interessato al progetto e ci dette la sua disponibilità a partecipare al festival, ma la cosa incredibile fu che decise di farlo a titolo assolutamente gratuito.
Battiato all’epoca era anche un personaggio politico e quindi il suo nome poteva aprire delle porte. Una volta ottenuta la sua adesione, ci rivolgemmo all’Ufficio Cultura della Provincia di Parma che ci aiutò ad ottenere un finanziamento dalla Fondazione Cariparma, finanziamento grazie al quale fummo in grado di contattare anche Stefano Bollani.

Battiato venne quindi a Busseto facendosi pagare solo i voli aerei e portò un omaggio a Giuni Russo con il suo documentario a lei dedicato e 6 pezzi. Era il 2008 e l’evento era completamente gratuito.

Da lì siamo partiti e abbiamo abbandonato per strada il concorso, interrotto nel 2009, concentrandoci sul festival.
L’anno successivo riuscimmo a portare Elio e le Storie Tese, Radio Dervish, Brad Mehldau sempre a Busseto.
Piano piano ci aprimmo alla provincia, trasformando il festival in un festival territoriale. Da appassionato alla lirica e ai suoi luoghi mi impegnai per fare sì che questi luoghi meravigliosi venissero aperti ai nostri concerti e in questo devo dire con orgoglio che un cambiamento l’abbiamo portato realmente.
Dal 2015 siamo poi riusciti ad ottenere uno sponsor importante, Tanqueray, che fa parte di Diageo, la multinazionale leader mondiale per la vendita di liquori.
Sono stati proprio loro ad interessarsi al Barezzi,dopo aver assistito a un concerto dei Notwist. Grazie al loro importante appoggio, le ultime due edizioni, 2015 e 2016, hanno potuto avere una certa accelerazione e siamo riusciti a concretizzare alcuni risultati importanti.

Tu hai chiamato e ospitato al Barezzi artisti allora emergenti come Levante, The Giornalisti e molti altri che nel giro di qualche anno hanno sfondato e si sono fatti conoscere al grande pubblico. Come funziona, fortuna o hai davvero il tocco magico?

Sembrerà banale ma il bar mi aiuta tantissimo perché mi consente di ascoltare tantissima musica. Poi devo ammettere che ho degli “spacciatori” sotterranei che mi suggeriscono artisti interessanti: si tratta di appassionati di musica ma anche di professionisti, conosciuti anche grazie alle varie collaborazioni scaturite dal festival.
La verità è che Barezzi per me è come un figlio e tutti i giorni lavoro per lui quindi sto sempre attento a quello che accade nel mondo della musica, in particolare alle scene internazionali che a mio parere sono più vivaci e sperimentali.

Cosa pensi della scena musicale italiana di oggi?

Per quanto riguarda la scena italiana sono felice che ci sia stato un ritorno alla musica indipendente e ne sono un convinto sostenitore: sicuramente apprezzo artisti come Brunori, che sono partiti dalla gavetta e hanno raggiunto il successo con il sudore, un po’ in contrapposizione alla strada troppo facile dei talent show. Con lui si è instaurato un bel rapporto di amicizia tanto che quest’anno ha fatto a Parma la data zero del suo nuovo disco.
La mia avversione nei confronti dei talent deriva dal fatto che penso che se un Vinicio Capossela, un Franco Battiato o anche un Fabrizio De Andrè si fossero presentati a uno di questi programmi televisivi non sarebbero mai diventati quello che sono perché qualcuno avrebbe avuto la pretesa di insegnare loro come stare su un palcoscenico o come cantare. La particolarità di un grande artista non è solo la sua bella voce, oggi ci sono un sacco di ragazzi con una bella voce ma quello che davvero fa la differenza è la creatività. Si pensi ad esempio a Vasco Rossi.
Questa nuova scena indie italiana è interessante e variegata. Apprezzo molto, oltre a Brunori, artisti come Colombre (che sarà al Barezzi quest’anno) e Carl Brave.
Poi ci sono anche gruppi più disimpegnati, come i Pop X o Calcutta, per i quali l’aspetto musicale è secondario e che si fanno portatori di una voglia di comunità dei giovani di oggi, stare assieme, bersi una birra in compagnia. Ma credo che siano tutti un buon segnale per la scena italiana, una scena che torna a vivere di musica dal vivo a basso costo proprio in contrapposizione ai talent.

Un consiglio per gli artisti emergenti oggi, quindi?

Ho un sogno nel cassetto, un progetto che ho chiamato Barezzi Road e che al momento non sono ancora riuscito a farmi finanziare. Dovrebbe essere un concorso ma impostato come anti- talent. In palio al gruppo emergente vincitore vorrei dare un furgone attrezzato con spie, casse, mixer e tutto il necessario per suonare live a patto che in un anno facciano 100.000 km portando in giro la loro musica.
In fondo Barezzi cosa può fare? Non certo promettere grandi contatti con le case discografiche che oggi come oggi hanno perso un po’ la loro ragion d’essere, piuttosto dare a chi è veramente motivato la possibilità di andare in giro e farsi le ossa suonando. Pensa come suonerebbe bene: Barezzi Road, per artisti che faranno strada!
In sostanza, l’unico consiglio che mi sento di dare agli emergenti è di andare in giro a suonare e farlo per la voglia che viene dalla pancia, con tutta l’umiltà del caso.
Penso alla storia di Vinicio Capossela prima di diventare Capossela, lui è uno che ha preso un sacco di calci per tantissimi anni però era convinto del suo progetto e l’ha portato avanti diventando il grande artista che è, senza scendere a compromessi con se stesso. Noi ci conoscemmo nel 2012 e da lì abbiamo fatto un percorso insieme che ha portato ad organizzare insieme la prima edizione dello Sponz Fest, il suo festival musicale. Due anni fa gli abbiamo dato il premio alla carriera proprio al Barezzi.

Quali altri artisti emergenti consigli?

Come dicevo, Colombre, Karl Brave ma mi piace molto anche Giorgio Poi. Come voci femminili apprezzo molto una romana di origini polacche che si chiama Thony e non è propriamente un’emergente anche se non è ancora conosciuta al grande pubblico. Mi viene in mente anche Marianne Mirage, estremamente preparata dal punto di vista vocale anche se ha completamente sbagliato il pezzo che ha portato a Sanremo.

Un’ultima domanda. Hai spesso citato tua moglie Laura, qual è il suo ruolo in tutto questo?

Laura collabora con me in questo progetto fin dal primo momento e ne è una parte fondamentale, mi ha sempre sostenuto. Abbiamo gli stessi gusti musicali e la stessa passione per la buona musica. Come ti dicevo, il Barezzi è un po’ come un figlio per noi!

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Che dire? È vero che ogni tanto fa bene sentire storie di belle persone che realizzano bei sogni in questo modo? Noi pensiamo che la storia di Giovanni e del suo festival possa e debba essere uno stimolo per una generazione spaventata e con le ali tarpate, che ha il terrore di volare troppo alto in un Paese ormai autoreferenziale e ripiegato su se stesso.

Non ci resta che lasciarvi con la line-up quasi definitiva dell’edizione 2017 del Barezzi Festival. Vale la pena di farsi una gita a Parma a novembre, no? Tutte le info su barezzifestival.it.

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