Ci sono incontri che sono scritti nel destino, personaggi sconosciuti che ti offrono chiavi di lettura inaspettate, che sciolgono nodi, che danno risposte senza nemmeno conoscere i quesiti.
L’incontro con Simona Norato, quarta intervista a una “stella buona” emergente che ha collaborato al progetto “Tregua 1997- 2017 Stelle Buone”, è stato a dir poco illuminante.
Un’artista poliedrica, con una personalità e una produzione musicale che vivono di contrasti continui. O meglio, “opposizioni”, come lei stessa preferisce chiamarle.
Alto e basso, leggerezza e profondità, main stream trash e teatro d’avanguardia, medicina e arte, taoismo e Jodorowski.
Una cantautrice sapiente, dotata di una grande capacità verbale e estremamente erudita sotto il profilo musicale, capace di raccontarsi senza filtri, con i suoi successi ed i suoi inciampi.
Una lunga intervista dalla quale abbiamo tutti molto da imparare.
Quando e come ti sei avvicinata alla musica? Cosa ascoltavi in casa e da piccola?
A casa mia la musica non è mai stata somministrata, praticata, ascoltata, non c’erano dischi. Mio padre, che era figlio di un’americana, prima di sposarsi portò dagli Stati Uniti una serie di vinili ma non li ascoltò mai.
Poi sono arrivata io, una bambina che aveva la musica nel tessuto cellulare, come una cosa innata.
La musica nella mia vita l’ho voluta io, l’ho desiderata fortemente.
Mi ricordo che ero alta appena come i pensili della cucina; su quei pensili c’era una tv e da lì sentii suonare un’orchestra. Fu un ascolto che mi mise in risonanza, sentii che eravamo fatti della stessa materia.
Poi, come teorizza Jodorowski, il desiderio che aumenta contribuisce a cambiare la realtà e a fare sì che il microcosmo ti mandi quello che ti serve.
Un giorno trovai nella cassetta delle lettere il biglietto da visita di un’insegnante di musica e da lì iniziai a suonare il pianoforte.
Alle medie feci anche l’esame per entrare al conservatorio Vincenzo Bellini di Palermo ma poi al liceo iniziò la deriva.
Fu in quegli anni che cominciai a scrivere canzoni, la mia insegnante di pianoforte principale, Alfonsina Campisano, era tra i docenti più illuminati che avevo e adorava che io cantassi accompagnandomi. È stata lei a iscrivermi ai primi concorsi, aveva intuito quello che io ero davvero, aveva capito che volevo cantare, produrre parole, che lo strumento mi serviva per un’esplorazione più completa della musica moderna.
Mia madre non fu affatto contenta di quella scelta ovviamente, fu una delusione cosmica, come tutte le mamme pensava al mio futuro alle certezze alla posizione sociale, per lei io dovevo fare il medico e la concertista.
Un medico concertista: come ti sei destreggiata tra queste due vocazioni?
Con immensa fatica ho finito l’università, ma in mezzo c’era già la musica e tra concerti e altro è stata un’impresa.
Ma la medicina è e resta un mio grande amore: credo di essere l’incarnazione della cura, la cura che ho cercato prima per me e poi per gli altri.
Per questo qualche anno fa mi sono avvicinata alla medicina tradizionale cinese ed ho scoperto una filosofia che adesso applico in tutto.
Sono una taoista radicale, metto in tutto un po’ del suo contrario, tengo all’omeostasi, all’equilibrio. Mi piace usare la parola “opposizione” anziché “contrasto” e credo che proprio lì stia il segreto dell’equilibrio.
Nella tua carriera di musicista ci sono tantissime esperienze corpose ed eterogenee, hai spaziato da progetti estremamente colti come Miss Mousse a esperienze televisive nel main stream più trash, da esperienze cantautoriali importanti come Dimartino a esperimenti di puro divertimento come Iotatola. Cosa ti ha spinto in questo percorso?
Di natura sono una persona curiosa. Come ho conservato lo studio della medicina in parallelo a quello della musica, così ho la necessità di essere doppia anche come artista, di nutrire due lati di me almeno apparentemente in opposizione per essere completa.
Molte delle cose che mi sono capitate come musicista sono state generate dalla mia ingenuità, ho vissuto anni in cui mi sono imbattuta in un desiderio di emergere che è umano e che però mi ha allontanato dalla consapevolezza di chi sono davvero.
Poi sono diventata più consapevole, non solo di me stessa ma anche e soprattutto del Paese in cui stavo suonando, degli squali che popolano il mondo della discografia in questo Paese. Ho attraversato mondi sbagliati, almeno per me, che mi hanno impressionato per la posizione assolutamente secondaria in cui viene relegata la musica. Questa scoperta mi ha fatto soffrire in maniera profonda ma mi ha anche aiutato a comprendere cosa volevo davvero per me stessa.
L’esperienza televisiva nella trasmissione “ Parla con me” di Serena Dandini è stata senza dubbio una grande fortuna: abbiamo suonato lì per due serate, alla prima c’era ospite Nanni Moretti e abbiamo fatto 4 milioni di share. È stato un momento di grandissima visibilità, ma proprio allora ho deciso di buttare via tutto perché non era un’esperienza che mi interessava davvero.
Eppure avevamo il secondo disco di Iotatola e il tour pronto a partire. Semplicemente mi accorsi che non mi interessava parlare a una certa borghesia musicale e spezzai il contratto.
Da quel momento credo che la mia musica sia diventata molto migliore ho incontrato persone eccezionali, quindi penso di essere stata davvero fortunata che mi sia successo tutto questo.
Qual è stata la causa scatenante dell’esperienza solista?
È stato casuale, quando ho lasciato Iotatola in modo così brusco avevo bisogno di esistere e contemporaneamente ho trovato il coraggio di darmi in pasto al pubblico in prima persona, col mio nome, un coraggio che prima non avevo.
Se avessi visto i mie i concerti con Iotatola e Dimartino, io ero una che guardava in basso, con la testa china sui tasti del pianoforte, ero un mostro di insicurezza e forse per questo sono diventata così brava con gli strumenti, perché ho divorato la pratica. Poi è arrivato un momento in cui ho trovato il coraggio di mettermi in mostra e lì è iniziata la mia esperienza solista.
Il tuo primo disco “La fine del mondo” è stato prodotto da Dischi della Fionda e offerto in download gratuito sul tuo sito, in barba alla SIAE. Cosa c’è dietro questa scelta?
In questi anni è stato bellissimo osservare la gente e fare uno studio antropologico sull’atteggiamento delle diverse persone di fronte a questo fatto. Ho scoperto, contro ogni aspettativa, moti dell’anima davvero splendidi. Esiste un’umanità che non fa notizia, che cambierà le cose andando contro questa distopia che oggi come oggi sembra inevitabile. C’è una costellazione di illuminati che creano processi virtuosi.
È una metamorfosi lentissima ma sono certa che qualcosa succederà.
“Cerco un editore oppure prendo una scimmia?
Torno in ospedale a guarire la scimmia
Trovo un discografico?
Piuttosto torno scimmia,
mangio insetti come una scimmia.”
Inutile domandarti cosa pensi dell’industria discografica, vero?
No, dai, non esageriamo, per fortuna il mondo discografico non è tutto malato, Esistono ancora discografici che aiutano i musicisti a scoprire il loro linguaggio sapendo che andrà anche a loro vantaggio. Ci sono quasi, li ho quasi trovati!
E l’incontro con Cristina Donà come è avvenuto? Come sei stata coinvolta nel progetto “Tregua 1997- 2017 Stelle Buone”?
Ho apprezzato molto l’idea di Cristina di coinvolgere nel suo progetto nomi emergenti anziché artisti di fama consolidata. L’aiuto che sta dando a me e a tutti gli altri è enorme, il fatto stesso che io e te ci stiamo parlando in questo momento ne è una dimostrazione. Per questo progetto ho reinterpretato “Le solite cose” e spero di aver fatto un buon lavoro.
Anni fa ci eravamo già scritte con Cristina, in occasione della mia nomination al premio Tenco: lei aveva espresso ufficialmente la sua preferenza per me sulla sua pagina e io avevo voluto ringraziarla del sostegno.
Quali consigli daresti a musicista emergente oggi?
Non saprei, non me la sento di consigliare o sconsigliare niente.
Se la partecipazione a un talent dovesse servire a quello a cui è servita a me l’esperienza televisiva, se dovesse diventare propedeutica a un risveglio artistico, allora va benissimo. Resto convinta che queste trasmissioni siano molto pericolose perché rischiano di far perdere a un musicista giovane la sua lucidità. Che poi quando sei giovane, si sa, i consigli non li segui.
A un ragazzo giovane direi di fare quello che si deve fare con la felicità, considerarla non come un punto di arrivo ma come uno stato mentale. Ho visto molti giovani musicisti stare sempre in uno stato di attesa che porta ad una frustrazione mostruosa e fa diventare infelici.
Basta scrivere cose buone, alimentare il proprio percorso, accettare di scrivere cose prima bruttine ma piano piano sempre migliori, dimenticandosi dell’esistenza del successo ma semplicemente provando gioia per ogni canzone scritta, per ogni concerto fatto.
Come nascono le tue canzoni?
Riempio i fogli e i quaderni di parole. A volte alcune parti mi sembrano più musicali di altre e lì inizio a tagliare le foglioline come se fosse un bonsai. Altre volte la musica e il testo nascono insieme, ma questo accade molto più raramente.
Ultima domanda data dall’ammirazione: ma come fai a fare tutto?
Ahahahah! No, non sono sempre un animale ad alto rendimento, mi piace anche oziare, c’è una grande parte della mia quotidianità che è dedicata all’immobilità, soprattutto fisica. Mi serve per concentrarmi a pensare al mondo e al respiro, penso alle persone che amo e che hanno bisogno del mio pensiero.
Vuoi conoscere gli altri artisti emergenti scelti da Cristina Donà per il suo progetto di tributo al ventennale di “Tregua”?
Qui trovi l’intervista a Sara Loreni, Chiara Vidonis e Birthh.