Può il pianoforte parlare un linguaggio contemporaneo e toccare l’animo del grande pubblico senza perdere la sua grazia?
Il 13 ottobre è uscito per la Warner Music Italy un album che secondo noi dà una risposta a questo interrogativo.
Si tratta di “Illegacy”, l’ultima fatica di Roberta Di Mario, elegante pianista e compositrice parmigiana che abbiamo avuto il piacere e l’onore di conoscere e intervistare.
Un’artista emotiva e appassionata che ci ha raccontato con generosità e franchezza il suo percorso di musicista e di donna, un percorso tortuoso e non senza inciampi, sostenuto e animato da una fortissima vocazione e da un amore incondizionato.
10 le tracce di “Illegacy”, un progetto intimo e potente, fatto di melodie semplici e nel contempo piene di un’intensità che raramente un profano della musica strumentale è in grado di percepire.
Come nasce la tua passione per la musica?
Mia mamma suonava fin da ragazzina e mi ha sempre raccontato che la nostra famiglia aveva la musica nel sangue perché un nostro antenato, il suo bisnonno per la precisione, era maestro di musica alla corte di Maria Luigia d’Austria.
Era una donna molto attenta, capace di notare da subito la mia predisposizione per la musica, cogliendo tanti piccoli segnali come, banalmente, il modo in cui percepivo i diversi suoni, muovevo le dita sul seggiolone e così via.
Così è accaduto che grazie a lei ho imparato prima le note che le lettere dell’alfabeto: a 5 anni mi sono avvicinata alla musica classica e ho iniziato a scrivere e comporre sotto la guida di un’insegnante.
Ero un piccolo talento e intorno a me c’erano grandi aspettative. Ma devo dire che ho anche avuto il privilegio dell’attenzione di un genitore che ha notato la mia predisposizione. Quanti sono i bambini che potrebbero sviluppare i propri talenti e percorrere la mia stessa strada se avessero famiglie sufficientemente ricettive?
All’inizio però non è stato un percorso facile: in quel periodo facevo anche pattinaggio artistico e ben presto è arrivato il momento di scegliere, perché il pianoforte richiedeva un grande impegno, un impegno quasi esclusivo. Così, dopo un momento di grossa crisi, in prima media ho abbandonato il pattinaggio e scelto il pianoforte. Una passione di più lunga data che da lì si è auto-alimentata ed è cresciuta a dismisura portandomi a decidere quello che volevo fare da grande e cioè la compositrice, non l’interprete o la concertista.
Mi sono poi iscritta al conservatorio di Parma. A quei tempi il conservatorio non era un luogo in cui venisse dato spazio alle sperimentazioni e io, che da brava studentessa ero estremamente docile, ho avuto un percorso di studi molto accademico che mi ha fatto in un certo senso soffocare per molti anni quello che realmente avevo dentro. Desideravo suonare Rachmaninov e Gershwin ma ci erano permessi solo Mozart e Beethoven; per fortuna che oggi le cose sono cambiate.
La mia strada è proseguita tra alti e bassi, all’insegna della determinazione e della resistenza. Il genere che ho scelto è senza dubbio molto di nicchia e il tempo storico in cui viviamo, con i suoi ritmi iper veloci, non aiuta le donne, l’arte e la creatività.
Ho avuto un figlio presto e, inevitabilmente, per fare la mamma e dedicarmi a lui mi sono anche fermata qualche anno, sempre però convinta di avere una vocazione che avrei ripreso e coltivato appena possibile.
Mi sono sempre messa in un’ottica di gavetta e di sacrificio e ho lavorato con umiltà e determinazione, certa di avere un talento da valorizzare.
Prima di arrivare ad “Illegacy”, un disco finalmente centrato su di me, ho tentato molte strade e cercato la mia maturità: sono passata dalle colonne sonore al cantautorato, finché finalmente è emerso tutto e ho avuto chiaro quello che volevo.
Questo disco lo considero il mio progetto più maturo ma non è un punto di arrivo, piuttosto voglio vederlo come un nuovo inizio. Un nuovo inizio che devo anche al grande staff che mi circonda e ha lavorato con me per realizzarlo.
Come nasce una canzone?
Non c’è una regola vera e propria, l’ispirazione per una canzone arriva quando arriva. Può arrivare stando ore ed ore al pianoforte e giocando distrattamente con la tastiera finché esce qualcosa, come spesso accade per gli scrittori.
Del resto il mio, come il loro, è a tutti gli effetti un mestiere e non sempre è facile essere produttivi.
Altre volte, invece, l’ispirazione ti cattura ed esce subito qualcosa di buono.
Quanto di te c’è in quello che componi?
I miei pezzi sono sempre il risultato di un vissuto reale, ma in differita. Evidentemente ho bisogno di tempo per far decantare il mio vissuto e guardarlo in prospettiva. Ti faccio un esempio: quest’estate, quando abbiamo girato il video di “Indefinitely” nella meravigliosa location dell’Anfiteatro dell’Anima a Cervere (dove c’è la statua che si vede nella cover del disco “Illegacy”), avevamo un fotografo di scena19enne, Matteo Zamboni. Purtroppo ad agosto Matteo è morto e la cosa ci ha colpito tantissimo. Due mesi dopo ho scritto “Empty Room” e dentro quel pezzo c’era Matteo. La musica è una cosa meravigliosa, offre la possibilità di purificarsi quando ti senti inquinato, pieno di qualcosa che non va, ha un potere catartico. E io sono privilegiata, perché ho trovato un lavoro che è anche una cura.
In passato ti sei cimentata anche con pezzi cantati. Cosa cambia nella composizione e nell’interpretazione?
C’è una differenza enorme, perché in un pezzo cantato deve esserci sincronia tra la musica e il testo. Il processo creativo è più o meno lo stesso ma l’aggiunta delle parole complica tutto. In quel frangente, volevo scrivere dei bei testi ma non era il mio lavoro e mi trovavo molto in difficoltà: per questo mi sono appoggiata a qualche coautore che mi aiutasse dal punto di vista della scrittura.
L’esperienza cantautoriale è nata in un momento della mia vita in cui sentivo il bisogno di uscire dall’etichetta di Roberta la pianista e volevo semplicemente rivendicare il mio essere Roberta e basta. In più era per me un momento molto difficile dal punto di vista personale e avvertivo quasi il bisogno di far uscire la mia voce come una preghiera.
Poi, dopo due dischi da cantautrice, ho sentito che era tornato il momento di cambiare nuovamente strada. Volevo fare la differenza e tornare a fare quello che mi riesce meglio. Per questo considero “Illegacy” un po’ il mio viaggio di ritorno verso casa. Un ritorno al pianoforte da solo, ma un ritorno con l’animo pacificato.
Quali sono le tue ispirazioni? Ascolti solo musica classica e strumentale o anche musica moderna?
Ascolto di tutto, spazio da Sting e i Massive Attack a Bach e Chopin. Ascolto tutto quello che mi smuove, quello in cui trovo un po’ di eleganza e raffinatezza, due valori che mi affascinano molto. La musica etnica africana, Sakamoto, Cesare Picco, Bollani e molto pianismo contemporaneo; ma anche John Legend, i Simply Red, il cantautorato italiano, molta musica francese, insomma, tutto quello che percepisco come bello. A dirla tutta ascolto poco jazz, perché non mi sento affine a questo genere: preferisco un certo pop che scimmiotta il jazz.
Il pianismo contemporaneo è un genere molto di nicchia. Ti sei fatta un’idea di quale sia il pubblico che ti segue?
Me ne sto rendendo conto adesso, dopo il tour negli store Feltrinelli. E la verità è che si tratta di un pubblico trasversale, in prevalenza di adulti, ma ci sono anche molti giovani che mi scrivono chiedendo se ci sono gli spartiti dei miei brani, mostrando quindi un interesse non solo passivo di ascolto ma anche attivo, legato al voler suonare. Si tratta di un genere di nicchia, è vero, ma oggi come oggi neanche troppo. In un certo senso è stato sdoganato da Giovanni Allevi che, insieme al suo staff, ha avuto l’intuizione di avvicinare il pianoforte, strumento classico, a qualcosa di vicino ai giovani rendendolo alla portata di tutti. Ludovico Einaudi è poi andato sulla sua scia. Il pubblico non è necessariamente colto come si penserebbe: ho visto Allevi a Domenica In che è la trasmissione più nazional-popolare esistente nel nostro Paese, segno che i tempi sono maturi. Nel mio caso spero sempre che ascoltatore sia con un bell’orecchio, capace di riconoscere la musica di qualità. Credo che la caratteristica vincente di “Illegacy” e della mia musica in generale sia una certa semplicità delle melodie, si tratta sempre di melodie intense ma orecchiabili. Ad esempio, “Duende”, che è uno dei brani dei quali sono più orgogliosa, non è una melodia facilissima. Subito dopo è uscito “My everything”, che invece è più semplice. E il 90% delle persone che ho incontrato e con cui ho parlato mi ha detto di preferirlo al brano precedente.
Parlaci di “Illegacy”. Un viaggio onirico e quasi cinematografico in cui la tua musica si avvicina quasi ad una colonna sonora.
Nel 2014 mi hanno chiesto di comporre la colonna sonora del docufilm “Vivere il mondo di Botero” ed è nato “Hands”, un brano di 4 minuti che amo molto e che ha avuto molto successo, suonato in occasione della mostra del maestro sia in Italia che in Giappone.
Questa esperienza mi ha fatto scoprire la mia predisposizione a dare voce alle immagini, ragione per cui i brani del disco “Illegacy” sono stati e saranno accompagnati ognuno da un video. Un totale di 10 brani per 10 video, diretti ognuno da un regista diverso che ho scelto insieme al mio staff. L’idea è quella di dare unicità al progetto e concretizzare la relazione, a mio parere molto forte, tra la mia musica e il mondo cinematografico.
A questo ha contribuito molto il fatto che uno degli editor del mio disco sia tra i fondatori della I Wonder Pictures, una promettente casa di produzione indipendente. E, devo dire che il mondo del cinema si sta sempre più interessando ai miei pezzi.
Consigli per un emergente che, come te, abbia passione per un genere musicale più di nicchia? Come arrivare al grande pubblico?
Questa è una domanda da un milione di dollari! Personalmente non ho pregiudizi nei confronti dei talent, ognuno può scegliere il proprio percorso e, se lo percorre nel modo giusto, può anche non bruciarsi. Mi sentirei però di sconsigliare l’esperienza dei talent a chi ha 18 anni e un’identità ancora in corso di definizione. Quando invece queste basi sono state poste e ormai consolidate, si può anche provare.
Al di là dei talent, però, io penso che la chiave del successo sia solo studiare molto e impegnarsi con costanza, non soffocare mai l’istinto e l’estro, essere sempre fedeli a se stessi, seguire la propria natura, quello che ti riesce bene e parla di te, accettando quello che viene. Poi c’è un certo “fattore C” che non è controllabile, certo è che se non ci provi non vai da nessuna parte. Io ho avuto molti momenti difficili, in cui sono arrivata a pensare di dover guardare a strade diverse perché la mia carriera musicale faticava a ingranare e a restituire i frutti che speravo, ma ho sempre creduto in me e mi sono creata delle opportunità. Sono arrivata a Marco Stanzani della Red&Blue perché l’ho contattato io e gli ho fatto ascoltare le mie cose. Oggi lui è mio manager e mio produttore.
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Piaciuta l’intervista? Vuoi approfondire l’argomento musica per il cinema? Prova a leggere la nostra intervista a Claudio Negro, dj padovano e noto compositore di colonne sonore.