Proseguiamo il nostro viaggio alla scoperta delle Stelle Buone, i dieci musicisti emergenti che sono stati chiamati da Cristina Donà a rendere omaggio e reinterpretare le dieci canzoni del suo primo album “Tregua” in occasione del ventennale dalla pubblicazione.
È la volta di Alice Bisi, in arte Birthh. Solo 20 anni, un amore per la musica contagioso, un entusiasmo e una risolutezza da fare invidia a tante sue colleghe più grandi e esperte (almeno sulla carta). Ma soprattutto un progetto musicale incredibilmente maturo e di qualità.
Un esordio, quello dell’album “Born in the Woods”, che ha tutte le caratteristiche di una promessa. Riconosciuto dalle maggiori testate musicali italiane tra gli album migliori del 2016, ci ha aperto nuovi territori musicali coniugando elettronica, lo-fi e una voce di carattere.
Il successo di pubblico, anche internazionale, non si è fatto attendere. E ne ha ben donde, a giudicare da quello che abbiamo visto coi nostri occhi solo qualche settimana fa al Todays Festival di Torino, in apertura al concerto di PJ Harvey e Mac Demarco.
Alice, eccoti qui, solo 20 anni e una carriera davvero promettente…
Già! La verità è che sto aspettando con ansia i 21 anni. Sono già due anni che vado negli Stati Uniti a uno dei festival musicali più fighi del mondo, il SXSW- South by Southwest Conference & Festivals®, ma non posso godermela fino in fondo perché l’accesso ad alcuni locali e a molti concerti è proibito ai minori di 21 anni! Un vero peccato, perché si tratta di un evento davvero eccezionale, l’intera città di Austin, in Texas, è letteralmente invasa dalla musica, ci sono concerti praticamente ovunque e perlopiù riservati agli addetti al settore. È un’occasione davvero preziosa per gli artisti emergenti che vogliono farsi conoscere, perché permette di suonare davanti a un numero contenuto di persone ma estremamente selezionate e potenzialmente utili per la propria carriera.
Raccontaci di te. Domanda di rito ma irrinunciabile: quando e come nasce il tuo amore per la musica?
Vengo da una famiglia in cui musica è sempre stata consumata quotidianamente in tutte le sue forme e i suoi colori. Mio padre ha sempre suonato, mia mamma è una grande appassionata di musica, mio nonno fa ancora oggi i piano bar.
I primi ricordi che ho di me che canto sono con il nonno, accompagnata dalla sua tastiera per il karaoke… da qualche parte ci sono anche dei video di quei momenti.
Lui, mio nonno, era napoletano e credo sia il responsabile di quella parte tutto sommato neomelodica che è in me. Senza voler generalizzare, è innegabile che al sud ci sia una maggiore predisposizione non solo per la musica ma più in generale per la creatività e il divertimento.
Da piccolina vedevo sempre mio padre suonare e credo che questo abbia influito molto sulla mia crescita, perché mi ha avvicinato alla musica e al suonare come ad gioco, un qualcosa di normale e di quotidiano.
Poi un giorno siamo andati io e lui soli al cinema a vedere “School of Rock”, il film con Jack Black. C’erano un sacco di bambini che suonavano e io sono rimasta folgorata. All’uscita ho dichiarato che volevo fare la batterista. Lui ha cercato la mediazione e mi ha consigliato uno strumento più melodico, così ho iniziato a suonare la chitarra.
Quando hai iniziato a scrivere le tue canzoni?
Ho iniziato a scrivere molto presto, mi piaceva idea di raccontare cose inventate. Ma fino alle medie ho avuto una band con cui ci limitavamo a fare delle cover.
In quel periodo, però, mi sono molto affezionata alla lingua inglese, al punto da arrivare a sentirla mia anche più dell’italiano.
Poi, alle superiori, ho iniziato a fare sul serio, a scrivere le mie canzoni e a dire quello che sentivo dentro.
Ho iniziato a suonare in giro, grazie ad un amico, Lorenzo, che aveva un altro amico che organizzava concerti. E così è nato il progetto Oh, Alice.
Chiaramente non mi aspettavo che l’evoluzione fosse questa, nel senso che mai mi sarei immaginata di arrivare a guadagnare della mia musica.
Quando ti sei trasformata in Birthh?
Può suonare strano, ma il nome Birthh è arrivato solo dopo che il disco era registrato e pronto per essere pubblicato. Volevo un taglio netto con la chitarra acustica e il folk del passato perché il disco era completamente diverso.
E così, inconsciamente, istintivamente, forse anche un pelino a caso, è uscito questo nome, Birthh, che può evocare molti significati e suggestioni.
Sono una persona che vede sempre nelle piccole cose grandi significati, ma credo che questo nome possa prestarsi a diverse interpretazioni e non mi piace l’idea di mettervi un limite, per me ha un significato ma per altri può avere un significato diverso. Lo lascio nelle mani di chi ascolta.
Scrivi tu sia musica che testi. Come nascono le tue canzoni? Qual è il processo creativo che c’è dietro?
Sì, è tutto mio. Per le canzoni dell’ultimo disco testo e melodie sono nate di pari passo, ma non ho una prassi creativa vera e propria, sono un po’ contro le prassi in genere.
In realtà nell’ultimo anno ho lavorato molto anche come autrice di canzoni per altri e ho potuto vedere, soprattutto nei circuiti delle major, quanto possa essere metodica la genesi di una canzone. Il problema è che il risultato finale è un po’ tutto uguale… se segui sempre la stessa strada alla fine non avrai mai quella dose di novità che avresti muovendoti ogni volta in una direzione diversa.
Io penso che ogni canzone abbia un’anima e sono convinta che, in qualche senso, non sia tu davvero a scriverla ma che sia quasi lei a scrivere te.
Non mi ritengo una persona con un particolare talento nello scrivere canzoni ma solo una che riesce a tirarle fuori bene, a dare corpo a qualcosa che esiste già. Per questo secondo me ogni modalità di scrivere va bene, l’importante è non forzare.
Sei un’artista con un sound molto internazionale e hai scelto di scrivere in inglese le tue canzoni. Cosa ha condizionato questa scelta linguistica?
Già dalle medie, come ti dicevo, mi sono resa conto che ero brava con le lingue straniere e con l’inglese in particolare, a scuola riuscivo a capire cose che magari gli altri compagni non capivano e mi esprimevo in modo più fluido. Ho semplicemente coltivato questa dote.
Così ho scelto il liceo linguistico e lì ho avuto la fortuna di avere un professore bravissimo in affiancamento a una madrelingua che veniva due volte alla settimana. In quegli anni ascoltavo tantissimo brit pop, traducevo tutti i testi e avevo una grande attenzione per la pronuncia.
In quinta liceo, poi, ho iniziato a frequentare una persona di Bristol e anche questo mi è stato di grande aiuto per perfezionarmi.
Sono convinta però che il fatto di andare all’estero non sia qualcosa di imprescindibile per imparare le lingue straniere, secondo me è questione sicuramente di predisposizione personale ma ci vuole anche molta volontà di imparare e un grande impegno.
Tornando alle mie canzoni, è da talmente tanto che scrivo in inglese che non so neanche perché ho iniziato a fare così, è venuto naturale. Poi, una volta che la mia musica ha iniziato a raggiungere più persone, mi è arrivata la conferma che fosse la scelta giusta e così sono andata avanti.
E cosa ci dici di questo sound così difficile da trovare in Italia? Quali sono state le tue ispirazioni?
Nel corso dell’elaborazione del disco i miei gusti sono cambiati totalmente, quindi se ci sono state delle ispirazioni non sono le stesse che mi guidano ora. Ne resta solo una, “Carrie & Lowell” di Sufjan Stevens, che è il mio album preferito di sempre. Si tratta del disco scritto dall’artista per la morte della madre, uno dei dischi più intensi che siano mai stati fatti.
Chi mi ha iniziato alla scoperta della musica elettronica è stato Jon Hopkins, che mi ha aiutato molto anche negli arrangiamenti del disco.
Oggi però sto ascoltando molto hip hop della East Coast, ad esempio da Chicago una rapper che si chiama Noname.
E di italiano?
Calcutta è un ottimo paroliere, Iosonouncane pure, anche se sono due artisti agli opposti come tipologia di scrittura. Mi colpisce molto chi usa in modo efficace la parola perché sono un’appassionata di letteratura, innamorata dell’ultimo Montale, di Ungaretti e Leopardi.
Per quanto riguarda l’aspetto più strettamente musicale, invece, trovo che il mercato italiano proponga meno novità rispetto al mondo anglosassone. Unica eccezione è forse proprio Iosonouncane, che devo ammettere mi ha colpito tantissimo.
Hai suonato al SWSX. Poi Eurosonic e Canadian Music Week. Hai aperto i concerti di Andrew Bird, a Torino meno di un mese fa hai introdotto PJ Harvey. Cos’altro ti aspetta?
Aspetta che ci sono un paio di bombe. Ho aperto a inizio settembre il concerto di Benjamin Clementine a Prato. Il 12 settembre, solo qualche giorno fa, ho suonato al Toronto Film Festival. Poi ho aperto e aprirò molte date del tour europeo di Hein Cooper, che verrà a Milano a suonare con me con tutta la band.
Credevo che mio tour finisse a settembre, ma continuano a spuntare date, al momento sono impegnatissima fino a novembre e, com’è naturale che sia, sono contenta ma avrei anche voglia di un attimo di pausa per ricominciare a scrivere. Purtroppo sono lentissima nel chiudere le canzoni, perché sono estremamente puntigliosa, e ho bisogno di tempo.
Il tuo album “Born in the Woods” è stato prodotto per un’etichetta indipendente “mezza” bresciana, la WWNBBC We Were Never Being Boring Collective? Com’è nata questa sinergia?
Loro sono tre ragazzi di origine italiana, uno di Bologna, uno di Brescia e il terzo che vive a S. Francisco da anni.
Quando ho mandato i primi demo in giro, ho avuto la fortuna di avere più di una offerta, che è una cosa davvero anomala oggi.
I ragazzi della WWNBBC sono persone appassionate di musica, che amano la musica per il bene della musica, ed è confortante perché nell’industria discografica la verità è che di persone così non ce ne sono tante.
Loro hanno creduto davvero in me e nella mia musica e mi hanno messo a disposizione tutto quello che potevano per realizzare il mio disco. Oggi si occupano soprattutto del management.
E che mi dici dell’incontro con Cristina Donà e del progetto Stelle Buone?
Purtroppo non ho mai incontrato Cristina di persona. Però ci siamo sentite molto al telefono, lei è una grande musicista e una persona super appassionata, per questo sono davvero felice di aver preso parte al suo progetto per il ventennale di Tregua.
La canzone che ho reinterpretato, “L’aridità dell’aria”, è stata per me un grosso scoglio da superare, era totalmente diversa dal mio mondo e dalla mia concezione di canzone. E questa è stata un po’ anche la parte più divertente. Anche se confesso che a un certo punto, quando dovevo iniziare a mettere dito sugli strumenti, me la sono vista davvero brutta: mi sono domandata cosa potevo fare per renderla mia, tutta questa libertà sulla canzone di una persona molto amata mi ha messo in crisi.
Ma sono soddisfatta del risultato e aspetto di sapere cosa ne pensate voi.
Ho registrato tutto il pezzo in camera, andando in studio solo per fare il remix e scaldare i suoni con un bel banco analogico.
Che cosa ti sentiresti di consigliare ai musicisti emergenti oggi?
Purtroppo penso che la situazione delle radio e dei circuiti musicali main stream in Italia sia ormai disperata. Per questo sono contenta che stia prendendo piede il rap, la trap, la musica della strada, perché sono generi in cui si dà un valore diverso alla musica, non come semplice canzonetta da ascoltare in autobus come insieme di storie e di contenuti.
Il dato di fatto è che viviamo in società in cui le arti sono sempre più viste come un qualcosa fatto per diletto, non come un lavoro. Per questo si sottovaluta il valore della musica e dell’arte tutta.
Il mio consiglio a un musicista che vuole emergere? Per prima cosa deve imparare a conoscersi e in questo la scrittura è utilissima. L’errore più grande che facciamo tutti all’inizio (che se vogliamo è anche comprensibile e normale) è pensare sempre a cosa funzionerebbe più che a cosa ci piace, a quello che davvero ci colpisce lo stomaco.
Io sono convinta che sia importante emozionarsi, quando si ascolta criticamente un pezzo che si è scritto, cercare appunto il colpo alo stomaco.
Poi serve lavorarci sopra con impegno e dedizione: per quanto vogliano farci credere che le cose capitano per caso, la verità è che devi essere sempre sul pezzo e metterci tutto te stesso, di gente più brava di te ce n’è un sacco, ci vuole tanto lavoro, tanto studio, suonare, sbagliare mille volte, essere curiosi, ascoltare.
Serve seguire la passione, se ti piace davvero una cosa devi avere il coraggio di farla con tutto se stesso.
L’amore per quello che faccio non mi fa dormire la notte, non riesco ad immaginarmi a fare altro nella vita.
Infine io credo serva non fermarsi mai, essere sempre in movimento, e non sottovalutare i live, andare a tanti concerti. Ho imparato quasi di più da concerti di altri artisti che dai miei.